Il simbolo della guerra era un palloncino...
Il simbolo della guerra era un palloncino
gonfiato d’elio,
tutto rosso con una macchia blu.
E l’uomo aspettava i seguaci col suo palloncino allacciato al
polso, assolutamente buffo con le sue armi in pugno,
l’elmetto e la mimetica, le bombe a mano ed il fucile in
spalla.
Aspettava.
Solo, in una grande piazza di cemento.
Passò un bambino, una sera, mentre lui dormiva accanto ad
un falò, col suo coltello fra i denti e la pistola sotto il fianco.
Passò un bambino, dicevo, e gli rubò il simbolo della guerra.
E proprio quella sera arrivarono gli alleati, i guerrieri del
pallone.
E il bambino, col suo palloncino, cominciò a camminare
sotto le stelle, silenzioso nel silenzio della sua mente, del
suo mondo.
Sorrideva alle stelle perché era libero. Era andato a fare un
giro e chissà quando sarebbe tornato dalla mamma....
Ma nel suo mondo non esisteva il tempo.
E con i suoi occhi grandi e puliti e il suo sorriso meravigliato,
cominciò a camminare con quel simbolo di guerra appresso.
Nessuno conosceva l’uomo che avrebbe portato il pallone.
Tutti i soldati arroganti, feroci, arrabbiati seguivano il
pallone, e il pallone seguiva il bambino, e il bambino
seguiva i suoi sogni.
E passò per strade e prati, e sfiorò con le labbra i fiori ed
essi, ai suoi piedi, spuntarono per appassire presto all’arrivo
delle armi.
E i soldati, sempre più arrabbiati, avanzavano ciechi al
mondo, sordi ai rumori, muti fra loro.
E le armi pesavano. Il pallone no.
E il bambino, felice del suo stupore, andava avanti senza
stanchezza: aveva sfiorato il mare, punto la neve, baciato i
fiori, cavalcato i caprioli, dormito nel marsupio di un canguro
dondolante, accompagnato una formica al di là del fiume,
scrutato l’acqua del lago, bevuto la pioggia, assaporato il
sole. Ed era felice.
I soldati erano man mano di più e man mano più stanchi:
avevano snobbato il mare, sporcato la neve, strappato i fiori,
mangiato i caprioli, sventrato i canguri, calpestato le
formiche, inquinato l’acqua del lago, maledetto la pioggia e
maledetto il sole e così... avevano cominciato a lasciar per
strada le armi e pian piano ad aprire gli occhi.
E il bambino cammina, ancora con il sorriso stampato sul
viso e il filo del palloncino stretto tra le dita.
Il cielo è più azzurro e i soldati, alcuni, lo vedono; altri
odorano i fiori, altri godono dell’erba fresca, altri giocano nel
fiume, altri imitano le formiche.
Ma vanno avanti ancora, con le poche armi rimaste.
Il bambino giunge in un prato grande, chiuso da boschi,
verde come i suoi occhi. E vola un uccello sul suo pallone e
lo buca.
Il bambino resta deluso e torna verso casa. I soldati non
hanno più una guida e si fermano nel prato accanto al
ruscello, vicini ai cerbiatti.
Buttano le armi rimaste, reimparano l’amore.
Il bambino ha visto abbastanza ed ora torna a casa. Sulla
strada raccoglie le armi lasciate dai soldati e durante il
cammino diventa adulto.
Arriva alla piazza di cemento, armato fino ai denti, con le
armi in pugno, l’elmetto e la mimetica, le bombe a mano ed
il fucile in spalla.
Compera un altro palloncino rosso con la macchia blu e si
addormenta accanto al falò col suo coltello fra i denti ed il
pallone legato al polso.
Si addormenta, dicevo, e sogna la guerra.