Cari Pirati di Radio e di Terra, eccoci di nuovo a bordeggiare dalla Baia di Yastaradio, a
bordo di Radio Pirata - la Radio nella Radio.
Oggi, dove vi porterò con il mio bordeggio? Da dove partiremo, ma soprattutto, dove
approderemo tra racconti, riflessioni e considerazioni?
Salite a bordo, aprite il cuore e lasciate alla deriva i pregiudizi...
Mi trovo spesso a parlare o scrivere o discutere di persona, al telefono o nei social.
Credo accada a tutti, di arrivare a un punto in cui si cerca di dire una cosa, confidando che
il nostro interlocutore comprenda il nostro concetto...
In senso più ampio, se mi rifaccio a quanto mi ha insegnato il Prof. Idalgo Carrara,
affidando il nostro pensiero, mettendolo a nudo, esponendolo, in realtà mostriamo noi
stessi per quello che siamo, ed è proprio il nostro pensiero che incontra l’amore o il
disamore del mondo esterno.
E vista da questa prospettiva verrebbe anche da dire che chi non si esprime rischia poco,
ma ritornerò su questo aspetto.
Dicevo, che credo che accada a tutti di iniziare a parlare di qualcosa, qualcosa che magari
sta anche molto a cuore e accorgersi che troppo spesso si verifica almeno una delle
seguenti situazioni:
la prima, più banale, più superficiale, meno coinvolgente a livello emotivo proprio perché di
solito accade in contesti di relazioni poco partecipate: una persona dice una cosa, l’altra
risponde assolutamente fuori contesto, come ci suggeriva Cechov con i “cip cip” risposti ,
mi pare, da Natasha ne Le tre sorelle o come quando si trovano le ipotetiche Gina e
Teodora:
- Come va cara, tutto bene?
- Sai, mio marito si è rotto la gamba, la piccola è stata bocciata a scuola, io ho la cistite e è
morto il nonno...
- Beh, son proprio contenta che vada tutto bene, guarda...ci vediamo presto
La seconda è quella in cui ci si trova, proprio malgrado, dirottati in un luogo mentale
lontano da quello di partenza, a discutere sfaccettature secondarie dimenticando
l’importanza del punto di partenza che, tuttavia, rimane prioritario.
La terza, invece, molto scoraggiante, è quella in cui si ha la sgradevole sensazione di non
essere stati capiti, di essere stati fraintesi, di aver investito tanto per esprimere
esattamente quel preciso concetto, cercando le parole una per una, con attenzione,
precisione, intenzione e si sprofonda nel baratro degli interrogativi quando dall’altra parte,
la risposta ci lascia chiaramente comprendere che nulla è arrivato del nostro intento.
Cosa c’è in comune in questi esempi?
Secondo me almeno due cose: l’incapacità o la mancanza di volontà di sforzarsi di
ascoltare e il poco interesse per l’altro.
Come ci siamo già detti più volte, io non sono una tecnica in nessun campo: amo
semplicemente cercare di capire le cose e osservare cosa mi accade in relazione ad esse,
convinta che i vari vissuti entrino comunque in risonanza o dissonanza quando si
incontrano.
Ed è per questo che vi racconto di me e di quel che vedo: per lasciare che la mia eco vi
sfiori, a volte per farvi ancora più saldi nelle vostre convinzioni, a volte per far affiorare
domande, a volte per farvi incavolare e reagire magari anche nei miei confronti: in ogni
caso, noi siamo in relazione.
Ecco, però, lo scivolone: essere in relazione, non significa necessariamente avere una
buona comunicazione.
Se riprendo i miei esempi, è chiaro che tra la Teodora e la Gina non funziona: una delle
due manca davvero in modo totale di cura e di interesse verso quello che le viene detto, è
distratta persino rispetto a se stessa, disattenta a quanto lei stessa si propone di voler
sapere.
Eppure succede davvero una marea di volte che si parli ...da soli!
Si dicono cose che cadono nel nulla, precipitano nel silenzio, si arenano lì, dove son
partite.
Rispondono suoni che fanno lo steso misero percorso, interlocutori che si rivelano
emissari di monologhi.
Si, anch’io in questo preciso istante, almeno fino a quando non troverò i vostri messaggi
su facebook nella pagina di Radio Pirata - la Radio nella Radio, sto facendo un monologo.
Ma la vostra scelta di accedere a yastaradio.com per ascoltarmi è di per sé una reciprocità
di intenti, perché, uno degli aspetti di cui ci dimentichiamo spesso, è proprio la parte attiva
dell’ascolto: un conto è sentire - suoni, rumori, voci... - e un conto è porre volontariamente
l’attenzione per farli propri cominciando, appunto ad ascoltare, a impegnarsi per
comprendere.
Nel secondo esempio, invece, è quasi come fossimo noi a lasciarci portare dalla corrente:
siamo noi che cadiamo nei trabocchetti che ci vengono tesi: si parte con il dire, che so?
ah, ecco: “io sono vegetariana e non faccio entrare carne in casa e nei miei piatti” e si
finisce che mi trovo a controbattere qualcuno che mi accusa di rifiutare l’amicizia di chi
invece mangia la carne.
Vi sembra la stessa cosa? Ecco, questa è una delle non-comunicazioni che colgo più
spesso: quando poi vengono strumentalizzate le posizioni soggettive dalla classe politica
o dai suoi portavoce, è la strada più battuta: in questo modo ci troviamo ad essere sempre
sulle barricate di parte anziché nella collettività pluralista delle piazze, ci troviamo sempre
ad essere “contro” anche quando non c’è nulla cui essere contro.
Quando si parla di immigrazione, di genere, di famiglia, di vaccini, di reddito, di partiti, si
può quasi stare certi che emerge la “pancia”, la nostra emotività, a impedire di focalizzare
l’attenzione sul reale intento comunicativo, si fagocita sommariamente il messaggio e
inizia un’incalzante botta e risposta in cui le ragioni dell’uno sembrano escludere
inequivocabilmente quelle dell’altro.
Eppure...continuiamo a raccontarci di essere una democrazia, di essere persone civili ed
emancipate...
Ma non preoccupatevi: questo modello di comunicazione distorta avviene spesso anche in
famiglia: chi meno ascolta - ricordate? ascoltare è l’intento di voler capire... - più si
allontana dalla formula di partenza in un botta e risposta che lascerà comunque entrambe
le parti insoddisfatte e inespresse.
E nel caso preso ad esempio, l’essere appunto vegetariana, la discussione probabilmente
si sposterebbe sulla caccia, sugli allevamenti e sui posti di lavoro del Mac Donald, e sul
rifiuto delle persone che ci vanno, eludendo del tutto il fatto che il mio unico problema,
nella dichiarazione specifica, è quello di non portare carne in casa e nei miei
piatti...nemmeno quella che - mio malgrado - compero ai miei cani!
E poi arriva il terzo modello cui avevo accennato: quello che è proprio doloroso.
E’ quel tipo di dialogo nel quale, malgrado la genuinità degli sforzi per farsi capire,
dall’altra parte entrano in gioco così tanti filtri che la comunicazione non solo viene
distorta, ma diventa poco a poco divergente.
E‘ il caso in cui affiora il fraintendimento.
Ci si può banalmente fraintendere perché si è erroneamente convinti del significato di una
parola e quindi la si usa a sproposito: abbiamo sentito quasi tutti qualche strafalcione
come quelli di chi, confondendo le parole, dice “ho una malattia venerea” quando vorrebbe
dire “venosa”... Se si prosegue col discorso, l’incomprensione sarà sempre più grande.
Ci si può fraintendere perché si danno valori più o meno profondi o specifici alle
parole...Amare, ad esempio, cosa vuol dire amare? “Ti amo”.... Amo il tuo corpo per come
è fatto o amo toccare il tuo corpo, amo quell’uomo per come scrive, amo questa donna
perché la possiedo (bestia che termine!), o per come mi fa sentire, ti amo per la
gratificazione che mi dai, amo la tua fragilità, la tua forza, il tuo sguardo...amo il tuo
sapore, sorbetto al mango!
Ecco, direi che con il verbo amare, le sfumature possono diventare davvero infinite.
Ci si può fraintendere con qualsiasi altra espressione malgrado la volontà e la necessità di
definire in modo chiaro e evidente il significato preciso, univoco e profondo di quel che si
dice...
Si desidera essere compresi senza equivoci.
Eppure...Eppure, proprio e soprattutto per le questioni importanti, per le questioni che ci
stanno più a cuore, per le domande esistenziali...ecco che l’incomprensione nasce dal
pregiudizio e dalla vulnerabilità soggettiva.
Quante volte ci facciamo interpreti sommari del pensiero altrui?
Quante volte crediamo di aver capito prima ancora che venga formulata per intero la
richiesta?
Quante volte la nostra paura di non essere all’altezza della richiesta stessa ci fa
rispondere in modo preconfezionato?
Quante volte, giudicandoci noi stessi, leggiamo un giudizio negativo nelle intenzioni
dell’altro anche quando non ce n’è traccia e agiamo di conseguenza con un attacco fuori
luogo?
Quante volte non siamo in grado di ascoltare perché crediamo di avere già tutte le risposte
pronte da dare?
Quante volte chiediamo aiuto e per questa serie di pregiudizi non lo otteniamo?
Quante volte abbiamo timore delle strade non percorse e cerchiamo di trascinare gli altri
sui nostri passi?
Quante volte ...abbiamo così paura di essere trascinati nel dolore degli altri da poter
soccombere e allora abbaiamo qualcosa pur di restar fuori da quel gorgo?
Quando accade?
A me sembra che accada soprattutto quando il porsi in ascolto dell’altro, amico, parente,
allievo, paziente o sconosciuto che sia, potrebbe far vacillare la nostra stabilità, le nostre
acquisizioni morali, scolastiche e materiali, quando per andare incontro dobbiamo mettere
in gioco un pezzettino di noi stessi.
Sono quei momenti in cui chi ha chiesto si sente più solo di prima, come un alieno che
parla una lingua incomprensibile al mondo e non sa come interagire per esprimere i propri
bisogni, per colmare i propri buchi neri.
Sono gli stessi momenti in cui chi risponde, si sente a posto con se stesso, perché una
risposta l’ha data, ci ha messo del suo, ha contribuito e meglio non poteva fare....
Un po’ come se io, vegetariana aliena, chiedessi una mela perché ho fame e ricevessi un
bel filetto al sangue che non potrei mangiare neanche volendo perché - e queso forse non
lo sapete - dopo un po’ di tempo il corpo di un vegetariano diventa fisiologicamente
intollerante alla carne.
A questo punto, dove sarebbe andata tutta la comunicazione cui si è fatto cenno?
A che pro tanti sforzi?
E anch’io, che ho preparato questo pezzo da condividere con voi, sarò riuscita a farmi
capire da tutti voi fino in fondo?
E nello scriverlo, che è comunque un ottimo esercizio di messa a fuoco e di presa di
coscienza, sarò riuscita a fare un altro piccolo passo per un miglioramento personale?
All’inizio della puntata avevo anche fatto cenno, quasi in battuta, che forse sarebbe meglio
non esprimersi, per limitare i rischi.
Io l’ho conosciuta una persona che non si esprimeva mai, una persona che ha sempre
ragionato sulle cose tra sé e sé, che non ha mai espresso a chiare lettere i suoi
sentimenti, che parlava per provocazioni e che non ha lottato per farsi capire, una persona
piena di aspettative che si sono spente con lei.
Vivere è un rischio e lo è anche comunicare, ma senza rischi non c’è comunicazione, non
c’è interazione e nemmeno vita.
La persona che ho conosciuto è vissuta sola, colma di amarezza e di gelosia per quella
che credeva essere la fortuna degli altri. Se ha provato a mettersi nei panni di qualcuno, io
non l’ho mai saputo, ma la sua tristezza, i suoi rimpianti e la sua rigidità erano palesi.
Per questa persona non ho potuto fare quasi nulla...ma di certo non sprecherò la mia
occasione di sforzarmi a comunicare, per me, per chi mi sta vicino e anche per chi non
conosco.
Abbiamo bisogno di una comunicazione efficace.
Abbiamo bisogno di capirci per affievolire la paura.
Abbiamo bisogno di non sentirci soli per avere coraggio nelle difficoltà e per trovare
soluzioni.
Abbiamo bisogno di comunicare...per vivere.